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Springmad è il nostro racconto di primavera!

Testi: davide.pellegrino | Illustrazioni: martina.acetti

“Non c’è nulla per te tra le mura di questa fortezza, ragazzina”.

“Ho viaggiato a lungo per arrivare fin qui, rischiando di essere divorata dalla tempesta e attraversando da sola il deserto, non rinuncerò ad entrare”.

“Questa città non vedeva il volto di uno straniero da anni, nessuno vuole più venirci, questa fortezza non esiste più per nessuno, ragazzina”.

“Sentivo la voce della vostra kasbah chiamarmi già da molto tempo, la vostra città esiste, almeno per me”.

“Quale voce ti chiamava? Ragazzina”.

“Erano i suoni di una grande festa, arrivavano proprio da qui, e nel silenzio del deserto mi hanno guidata fin sotto queste mura”.

“Qui non c’è nessuna festa, ma soltanto abbandono e desolazione. Quelli che ti hanno condotta sin qui sono i suoni del passato, di quando la kasbah era piena di vita e durante le sere di primavera si riempiva di musica e canti, ma già da tempo è tutto finito, ragazzina”.

“Come potevo sentire i suoni di una città che non vive più?”.

“Ciò che facciamo non si esaurisce nel momento in cui lo facciamo, ragazzina”.

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“Non capisco”.

“Un tempo questa fortezza era brulicante di carovane, di viandanti, mercanti e artisti d’ogni sorta. C’era chi cercava fortuna e chi dipingeva il deserto per tutta la vita, rapito e ipnotizzato dalla sua sabbia e da questa luna chiara che ora ci illumina. Così questa città è stata viva, e non smetterai di sentire quella vita finché ci saranno uomini come me a ricordarla, ragazzina”.

“Vuol dire che quelli che mi hanno portata qui, erano i suoni della memoria?”.

“Esatto ragazzina, la memoria può fare un gran rumore se si ascolta bene”.

L’uomo si alzò in piedi e si tolse il copricapo dalla testa. Aveva capelli corti e bianchi, ma ancora folti.Mosse alcuna passi lenti in direzione di Vera, solcando la sabbia a piedi nudi.

“Se è stata la mia memoria a chiamarti sin qui, significa che sarai mia ospite, ragazzina. Vieni con me, conoscerai i luoghi di quella festa ormai così lontana”.

All’interno delle mura si respirava un’aria lievemente acre e acidula. Vera camminava a qualche passo di distanza dall’uomo in blu, osservando ogni angolo della kasbah, affamata di curiosità come mai prima d’allora. I due procedevano lentamente, in silenzio. L’uomo in blu aveva capito che le occorreva una guida discreta.

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L’antica fortezza era quasi del tutto disabitata, eppure Vera poteva scorgere di tanto in tanto la presenza di anziani uomini e donne che in silenzio perpetravano i gesti d’ogni sera.

Al suo passaggio sollevavano il capo e la seguivano con lo sguardo in ogni movimento, senza però interrompere il loro daffare. C’era una donna, seduta sull’uscio di casa, intenta a mungere una capra inespressiva. Vera ne incrociò lo sguardo: era severo, eppure celava una gentilezza matura.

Il cielo era chiaro e profondo, e la luna inondava ogni cosa di una luce più bella di quella del sole.

Nell’aria c’era profumo di carne, e la sabbia sollevata da ogni passo portava con sé l’odore acre e pungente del grasso e delle spezie.

“Come vedi siamo rimasti in pochi nella kasbah, ragazzina. Queste mura potrebbero dare ancora da vivere a molte persone, eppure quasi tutti le hanno abbandonate. Già da tempo i giovani hanno cominciato a cercare fortuna altrove, e gli anziani, sentendo il peso del deserto e della solitudine, preferiscono aspettare la morte circondandosi di vita in qualche posto lontano da qui. Siamo così pochi ormai, che non abbiamo più motivo di vivere ognuno in casa propria. Ogni cosa qui è di tutti noi, e cerchiamo di prendercene cura con quelle poche forze che ci rimangono. Le giornate scorrono in silenzio, mentre ci affaccendiamo per tenere in vita la nostra città e noi stessi. Di tanto in tanto il deserto entra portato dal vento, cambiando il volto delle strade e l’umore di ognuno di noi. Quando arriva la sera, proprio com’è arrivata adesso, ci prepariamo per la cena. Non c’è motivo di mangiare da soli, così ci incontriamo nel riad che un tempo era la dimora della mia famiglia, e condividiamo la cena e aspettiamo in silenzio che la notte arrivi.

Ma tu sei venuta ad allietare la nostra solitudine, e sei nostra ospite.

Così per celebrare il tuo arrivo, imbastiremo una ricca tavola in piazza, proprio sotto al grande minareto. È tempo di festeggiare di nuovo, mia cara ragazzina”.

 

Vera e l’uomo in blu arrivarono ai piedi del minareto. La piazza rischiarata dalla luna era silenziosa e carica di profumi. D’un tratto da un angolo poco lontano iniziarono a fare capolino gli altri abitanti della kasbah. C’era chi su lunghe assi di legno portava tajine di pollo e cedro, chi portava il tè alla menta e chi preparava la tavola per la grande festa. C’era anche chi si preparava a far risuonare nella notte dei grandi tamburi impolverati.

Adesso in piazza c’erano tutti, circondati dalle mura gialle di quelle case basse, sotto lo sguardo del grande minareto, pronti a festeggiare l’arrivo della primavera in città.

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Finita la cena la festa poteva cominciare. L’uomo in blu chiese il silenzio e intonò un canto profondo. La sua gola si muoveva su e giù per produrre quel suono che pareva risalirgli dalle viscere, e il suo volto si rivolgeva al cielo. L’anziana donna che mungeva le capre, adesso aveva iniziato a cantare con lui, ma pronunciava parole diverse, con un tono diverso. I loro canti si mescolavano nell’aria come facevano la polvere i il profumo dei cedri, poi due uomini lasciarono la tavola e imbracciarono grandi tamburi, cominciando a percuoterne le pelli.

Anche l’uomo in blu e l’anziana signora delle capre si alzarono in piedi, intonando sempre quel canto, che adesso era diventato ancora più forte. Chi rimaneva seduto al tavolo batteva le mani e li accompagnava seguendo il ritmo scandito dai tamburi.

Infine, tutti lasciarono le sedie e si misero a danzare proprio al centro della piazza. Qualcuno prese Vera per mano, accompagnandola nel mezzo della danza. Tra tutto quel muoversi, e tra il suono dei canti e dei tamburi che si levava oltre le mura, l’uomo in blu le si avvicinò e d’improvviso smise di cantare.

“La festa che ti ha portata fin qui ragazzina, non è altro che la festa che sentivi già dentro”.

Il vento accarezzava le dune in quella notte di primavera, portando lontano il suono dei tamburi e quel canto profondo. Avrebbe attraversato il mare e superato le montagne, arrivando alle orecchie di un’altra anima attenta, spingendola a partire per un nuovo lungo viaggio.

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