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Un buon inizio, ma non fermatevi qui.

Ali Tabrizi sbarca su Netflix con il suo Seaspiracy. Tabrizi si era già fatto notare nel 2018 per un altro documentario –Vegan-, che tuttavia non ha raggiunto il successo del suo ultimo lavoro.

Oggi vi proponiamo alcune considerazioni in merito a Seaspiracy senza fare particolari spoiler -ammesso che si possa fare spoiler di un documentario -, perciò proseguite pure senza indugi!

Seaspiracy tratta un tema molto forte, e lo fa con immagini spesso altrettanto forti e crude: la pesca industriale. Siamo stati volontariamente larghi scrivendo pesca industriale, perché Seaspiracy mostra anche un ampio corollario di problematiche ad essa connesse: la plastica in mare, la devastazione dei fondali, il cambiamento degli ecosistemi, la schiavitù sulle navi da pesca, le stragi di cetacei e diverse altre questioni.

Dal nostro punto di vista, l’abbondanza di temi trattati è allo stesso tempo il punto forte e il punto debole del documentario. Se da un lato, infatti, il lavoro di Tabrizi sottopone allo spettatore le diverse declinazioni della pesca industriale, mostrandoci le loro drammatiche conseguenze sul nostro pianeta e invitandoci alla riflessione; dall’altro si ha la sensazione che il documentario sia leggermente patinato, e che getti tutto nel famoso calderone. 

seaspiracy documentario netflix

Vogliamo essere chiari su questo: Seaspiracy ci è sembrato un buon lavoro, e molti dei dati che fornisce – che in tutta franchezza non abbiamo verificato -, ci hanno davvero spinto alla riflessione.

È anche vero però, che Tabrizi fornisce un quadro desolante del mondo della pesca, un quadro senza scampo, che è tuttavia parziale.

Non intendiamo sminuire gli spaventosi numeri riguardo i danni della pesca industriale che Seaspiracy propone, ma riteniamo importante sottolineare l’importanza della vita costiera di moltissime aree del pianeta, dove la pesca rimane ancora un’attività legata alla sussistenza delle popolazioni.

Quello che intendiamo dire è che dopo aver concluso Seaspiracy ci si promette di non mangiare più il pesce, spinti dalla rabbia e dalla tristezza che il documentario vuole infondere.

Il fatto che un documentario lasci allo spettatore una sensazione così drastica su un tema così vasto e sfaccettato è già di per sé un campanello d’allarme.

Riflettere sui danni della pesca industriale ed evitare il consumo dei suoi prodotti e derivati è fondamentale per promuovere il cambiamento, e non potremmo che essere d’accordo con questo; ma Seaspiracy lancia esplicitamente un messaggio molto più drastico: non esiste la pesca sostenibile.

Capirete bene che un’affermazione di questo calibro merita un approfondimento non banale per poter essere sostenuta, e ciò che pensiamo è che Seaspiracy non ci riesca del tutto.

La vena sensazionalistica e compassionevole è piuttosto marcata, e per quanto alcune immagini abbiano colpito molto anche noi, sappiamo che è opportuno non lasciarsi trasportare soltanto dalle emozioni, componente sulla quale il documentario sembra invece spingere molto.

Temi come l’approccio ecosistemico – metodologia che permette alla fauna ittica di riequilibrarsi tra i vari cicli di pesca – e la sussistenza di moltissime aree del pianeta, dove la pesca artigianale rappresenta la prima – se non l’unica – fonte di cibo e reddito, non vengono minimamente citati.

In conclusione: pensiamo che Seaspiracy possa essere un ottimo stimolo per riflettere sul modo in cui approcciamo al consumo di pesce, ma per sviluppare una solida posizione critica in merito forse, non è sufficiente.

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