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Un mostro, un castello, un airone bianco

Capitolo 1: Il Piangisabbia

Testi: davide.pellegrino | Illustrazioni: martina.acetti

Il Piangisabbia viveva intrappolato in un grande castello. Passava il suo tempo chiedendosi chi lo avesse rinchiuso lì, e perché. Non avrebbe saputo dire da quanto tempo vagasse per le stanze di quella immensa prigione. Quanto tempo era trascorso? Forse mille anni, o forse solo poche ore. Non sarebbe mai riuscito a dirlo. Non ricordava nemmeno il suo primo giorno di prigionia, tanto la sua mente era annebbiata dalla tristezza e dalla malinconia. I suoi grandi occhi blu avevano il colore del mare più lontano, mischiato alla tinta dell’acqua che si trova quando si scavano profonde buche sulla spiaggia. Erano pietre lucide e buie, incastonate in un viso di sabbia, che piangevano lacrime di una materia sconosciuta ad ogni uomo. Una sabbia dorata infatti, densa come miele, colava dai suoi occhi ogni volta che si ricordava di essere solo al mondo, rinchiuso in un enorme castello vuoto e silenzioso.

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Era alto, anzi altissimo, come tre uomini in piedi uno sopra l’altro, forse anche più. Per questo faticava molto per riuscire a sbirciare fuori dalle piccole finestre del castello. Doveva piegarsi sulle ginocchia, chiudere un occhio ed avvicinare l’altro alla fessura nel muro, per riuscire a guardare fuori, e vedere infine soltanto una minuscola porzione di mondo. Fuori dalla finestra c’era una sterminata distesa di sabbia, sabbia senza cielo, la stessa materia di cui egli stesso era composto. Dopo poco tempo doveva rialzarsi in piedi, perché stare in quella posizione era doloroso, come lo era guardare fuori senza che nessuno potesse accorgersi di lui. La sua schiena lunga e sottile infatti, non poteva reggere a lungo il peso del collo, torto com’era in quella scomoda posizione per riuscire a guardare fuori.

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Il tempo per lui era un liquido denso e lattiginoso, qualcosa da cui si desidera profondamente fuggire. Sospeso in quel mare viscoso, il Piangisabbia vagava perso nella malinconia, e di tanto in tanto sedeva, lasciando scivolare la sua esile schiena lungo le pareti ruvide del castello, e piangeva le sue lacrime dorate.

Il suo castello era immenso. A dire la verità non era suo. Ci si era trovato intrappolato, ma non l’aveva costruito lui. Quattro torri, che sembravano esser nate da un secchiello ricolmo di sabbia umida che viene ribaltato con decisione su altra sabbia, delimitavano gli angoli del castello. Mura alte e solide collegavano le torri, decorate in cima da merletti semplici e regolari. Corridoi dai soffitti lontanissimi, perfino per una creatura alta come lui, collegavano le immense stanze vuote, pochissime finestre alle pareti, e nessuna porta per uscire. Il giorno e la notte non esistevano tra le mura del castello, ma il Piangisabbia riusciva a distinguere il buio dalla luce ascoltando i suoni provenienti dal mondo esterno. Di giorno un gran vociare di ragazzini alle prese con lunghe corse e giochi frenetici, di notte il silenzio più assoluto, accompagnato soltanto dalla nenia distante e malinconica del mare.

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Gli anni si trascinavano lenti, e in cuor suo il Piangisabbia sapeva di sciupare il tempo cercando un modo, che non c’era, per uscire dal castello. Ma che altro avrebbe potuto fare? Allora aveva scelto un punto nella parete di una delle quattro torri, ed ogni giorno, quando i bambini iniziavano a colorare l’aria con le loro voci, il Piangisabbia iniziava a grattare il muro con le sue unghie, sperando che qualcuno potesse sentirlo.

Per molti giorni consumò le sue dita provando a scalfire quella solida parete, e per altrettanti giorni pianse le sue lacrime d’oro e sabbia, per il dolore che sentiva risalire dalla punta d’ogni dito, fino al centro del suo petto. In tutto quel tempo non guadagnò nemmeno un centimetro di libertà, quelle pareti sembravano stregate, impossibili da modellare, tantomeno da abbattere. Ma in quello che sembrava dover rimanere per sempre un infinito presente di disperazione, un giorno speciale stava per arrivare.

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Thea e Marco erano presi da una delle loro lunghe corse sulla spiaggia. Si affannavano tenendosi per mano e tirandosi strattoni, per catturare farfalle con un retino. Di tanto in tanto si lasciavano cadere, e rotolavano sulla sabbia calda, scoppiando in risate elettriche, alternate a lunghi respiri che servivano a riprendere fiato.

Poi di nuovo in piedi, di nuovo di corsa, col sole alto del mezzogiorno sulla testa, ed il vento che trasportava le molecole profumate dei fichi e del finocchietto, diritto nelle loro narici spalancate. Un tuffo veloce nel mare calmo, e poi di nuovo sulla spiaggia, a perdersi tra giochi e corse senza fine. E fu proprio a causa di una di quelle corse che la vita del Piangisabbia di lì a poco sarebbe cambiata.

Marco teneva stretta la mano di Thea, e si divertiva a correre con passo più svelto di quello dell’amica, per poi guardarla mentre cercava goffamente di recuperare l’equilibrio, con delle mosse buffe delle sue braccia sottili, che faceva sventolare per aria alla ricerca di un nuovo baricentro. Non sempre Thea riusciva a mantenere l’equilibrio, e spesso si lasciava cadere sulla sabbia morbida, e Marco, che non aspettava altra scusa, si lasciava cadere a sua volta vicino al corpo caldo e profumato di Thea. Lei rideva, faceva una linguaccia e guardava gli occhi di Marco, che erano vicinissimi; poi si rimetteva in piedi, ed iniziava di nuovo a correre, con la speranza di farsi catturare ancora.

Thea perse l’equilibrio durante l’ennesima corsa a perdifiato, cercò di ritardare la caduta spostando tutto il peso in avanti, ed infine capitolò abbattendo una grande torre di un castello di sabbia. Il ginocchio destro le bruciava da morire, probabilmente se l’era sbucciato contro un sasso durante la caduta, e gli occhi e la lingua erano appiccicati di sabbia. Thea tossì per liberarsi di quella che aveva in bocca. Con fatica riuscì a pulirsi gli occhi, perché anche le mani erano piene di sabbia, e ad ogni passata non faceva altro che spostarla, senza riuscire a liberare completamente il campo visivo. Si pulì i polpastrelli, e delicatamente li passò lungo le palpebre, e riuscì così a liberarle. Aprì lentamente gli occhi, con il timore che di nuovo la sabbia potesse entrarvici. Non sentiva più le risate di Marco, e i suoni della spiaggia ora erano lontani ed ovattati, come bloccati da spesse mura. Quando finalmente riuscì a guardarsi intorno, si accorse di quanto fosse incredibile ciò che le si parava davanti. Un castello immenso, con una luce simile a quella del crepuscolo d’inverno. Una luce flebile e malinconica. Alle sue spalle una breccia nella torre in cui ora si trovava, lasciava intravedere un deserto sterminato di sabbia senza cielo. Il silenzio era assordante e l’eco del suo respiro evaporava verso l’alto perdendosi nella lontananza del soffitto. Thea era smarrita, confusa; ma tuttavia affascinata da quella visione incredibile. Si rimise in piedi, poggiando le mani ancora sporche di sabbia sul pavimento liscio di pietra scura. Titubante ed insicura iniziò a muovere i primi passi, come fosse appena venuta al mondo, partorita da un grembo oscuro e misterioso. La spiaggia ora le sembrava lontanissima, così come anche Marco. Un brivido gelido le risalì lungo la schiena al pensiero di non riuscire più a fare ritorno al suo mondo. Era sola, in un castello immenso e silenzioso. Annusò l’aria, non era più profumata di fichi e di finocchietto, ma sapeva di sabbia umida e di oscurità. Lentamente lasciò la torre, e si allontanò dalla breccia che lei stessa aveva aperto nel muro.

Certo, sarebbe potuta tornare indietro, provando a ritornare nel suo mondo proprio passando da quella breccia. Ma qualcosa la chiamava dalle viscere del castello. Non poteva tornare indietro adesso, perché sentiva che tra quelle mura c’era qualcosa d’importante che era andato perduto, e che ora lei aveva il compito di recuperare. Si affacciò sul corridoio che si perdeva nel buio, diritto e preciso come un molo che s’affaccia sul mare in una notte senza stelle.

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I suoi occhi si stavano ancora abituando all’oscurità, ma dopo pochi istanti Thea vide qualcosa di mostruoso. In fondo al corridoio un’altissima creatura che pareva fatta di sabbia, stava immobile, fissandola da lontano con i suoi occhi di un blu che Thea non sarebbe mai riuscita neanche ad immaginare. Era un mostro alto ed esile, con lunghe braccia ed una testa tonda e grande, in cui erano intrappolati due occhi espressivi e languidi come quelli di un animale impaurito nella notte. Thea sentì la sua coscienza allontanarsi, e dopo pochi secondi cadde in un sonno profondo, mentre gli occhi di quella strana creatura ancora le sondavano l’anima.

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